I racconti  d’appendice (22)




  


VIVI OGNI GIORNO DELLA TUA VITA COME SE FOSSE L’ULTIMO

(quinta puntata)

Fu quasi per caso che un giorno di ottobre dell’anno successivo, mentre camminava lungo un viale di Milano, vedendo la strada cosparsa di foglie cadute dai platani, Romano tornò con la mente a quella sua drammatica passeggiata sul viale dell’ospedale di Careggi.
Ripensò quindi a quella fatidica giornata, alla malattia, alle parole del professor Prini: « Lei ha tre, quattro,….al massimo sei mesi di vita…»
Il ricordo di quelle parole lo fulminò. Romano si fermò di colpo in mezzo alla strada e mormorò tra sé: « Ma è già passato un anno… Un anno! »
« Oddio! – disse riprendendo a camminare lentamente – Non ci avevo neanche più pensato. Quella tragica scadenza mi era completamente passata di mente! »
« Allora erano tutte stronzate! – continuò a borbottare mentre si eccitava e affrettava nervosamente il suo passo – Allora…ecco… I medici vanno a caso! Sbagliano con facilità! Non hanno nessuna cognizione precisa e sicura!… Bluffano. Buttano lì le loro diagnosi e le loro previsioni in modo del tutto empirico… approssimativo… Io ho la prova ora!… Il grande specialista!… Il grande oncologo!… »
La sua anima di lottatore, di ricercatore, di pensatore visse in quel momento una specie di trionfo. Mentre camminava lungo quel viale di Milano, ripeteva e rinfrescava dentro di sé le sue formule naturaliste, le sue nozioni di medicina orientale, i suoi postulati di psicosomatica: l’unione mente-corpo, il potere della suggestione, la malattia come conseguenza della concentrazione della tensione nervosa su una parte del corpo, la necessità di un flusso libero e sciolto dell’energia psicofisica.
Allora aveva ragione lui! Quello in fondo era il primo vero “esperimento scientifico” che compiva ispirandosi alle sue teorie. Lui, a differenza dei medici, non poteva fare i suoi esperimenti sulla pelle degli altri, aveva solo il suo corpo su cui poter sperimentare. E quell’esperimento era pienamente riuscito.
Si sentì grande allora. Sentì che tutta la sua vita aveva un senso profondo, che era stata interessante e creativa e che lui poteva considerarsi un uomo realizzato e completo.
« Si – disse ancora fra sé a bassa voce – il mio esperimento è pienamente riuscito! » Poi si fermò di nuovo in mezzo alla strada e, con tono più realistico e perplesso, mormorò: « Per ora… E’ troppo presto per cantare vittoria, aspettiamo…»

Passò ancora un anno e Romano, con coraggio e determinazione, rispettò quella specie di appuntamento che aveva dato a se stesso quel giorno a Milano.
Anche quell’anno era stato pieno di avvenimenti e di successi; anche quell’anno era stato vissuto da lui convulsamente, divorando il suo tempo con foga e passione; anche durante quell’anno aveva seguito semplicemente la scia della fortuna che all’improvviso l’aveva sfacciatamente favorito… Ma il pensiero della scadenza che si era dato quel giorno non l’aveva mai abbandonato del tutto, ogni tanto riaffiorava dal suo inconscio e tornava insistentemente ad interrogarlo.
Arrivato dunque all’autunno del 1998, in un caldo giorno di ottobre, Romano decise di chiudersi per un intero pomeriggio nella sua nuova villa di Fiesole, per fermarsi un momento a riflettere sulla sua vita, sulla sua storia e su quell’incredibile ultimo capitolo del suo “romanzo”.
Ora voleva rischiare ancora di più. Voleva dare una base razionale a quello che fino ad allora era stato un gioco emotivo di stati d’animo. Voleva toccare con mano quello che altrimenti rischiava di essere nient’altro che una specie di sogno ad occhi aperti.

Ripercorse con la mente le varie fasi della svolta che aveva cambiato la sua vita. Cercò di illuminare con la luce della coscienza quel momento della sua esistenza che aveva vissuto in modo quasi totalmente inconscio. Ripensò alla malattia, al colloquio col professor Prini, alla sua strana sfida alla morte…
Che fosse stata la suggestione, che fosse stato lo sforzo volontario di non concentrarsi mai sulla parte malata, il fatto era che la frequenza delle fitte era gradualmente diminuita, finché, da un certo momento in poi non le aveva più sentite. Ora, dopo più di due anni, si sentiva veramente guarito.
C’era una cosa però che non aveva mai fatto: provare ad ascoltare la parte malata; a toccarla, a stuzzicarla; per vedere che tipo di reazione potesse avere.
Non aveva mai compiuto quella verifica, perché dentro di sé aveva il terrore che facendola il suo stato di grazia potesse finire. Aveva paura che la parte malata si fosse come addormentata, che il gioco di suggestioni che si era innescato in lui l’avesse come neutralizzata; e quindi temeva che, se l’avesse stuzzicata, avrebbe potuto risvegliarsi e tornare a farsi sentire con le fitte acute di dolore.
In quei due anni la sua operazione mentale aveva dato dei risultati ottimi, ma in lui era sempre presente il timore che quel che gli era successo fosse il frutto di una specie di “incantesimo” e che come si era creato così potesse svanire, da un momento all’altro, con lo stesso colpo di bacchetta magica.
Era come se in quei due anni avesse vissuto sull’orlo di un precipizio, in equilibrio su un filo sottilissimo; e ora aveva il terrore che, toccando quella parte del suo corpo, quel filo si spezzasse.

Eppure era arrivato il tempo di rischiare anche quello. Se il rischio era diventato la sua regola di vita, ora doveva andare fino in fondo.
C’erano poi, fortissime, la tentazione e la curiosità di sapere se il suo esperimento potesse avere anche una “reale validità oggettiva”. Come in tutti noi occidentali, era troppo forte anche in lui il mito dell’ “oggettività”, per cui non si accontentava certo di una validità esclusivamente soggettiva, che in quanto tale non era comunicabile. Decise allora di tentare ancora, e di fare quell’ulteriore, rischiosissimo passo.
Si distese sul letto e con una mano un po’ esitante cominciò a fare pressione sull’inguine. Prima lo fece piano, con estrema delicatezza, mentre il cuore gli batteva forte e sulla fronte gli si formavano piccole gocce di sudore, poi cominciò a farlo con maggiore decisione, sempre più forte, sempre più a lungo e – con un entusiasmo che andava man mano crescendo – constatò che non provava alcun fastidio.
Ricordò come gli stessi movimenti due anni prima gli avrebbero procurato dolori forti ed acuti, per cui alla fine, con grande eccitazione, cominciò a premere con gusto sulla parte, fino quasi ad infierire su di essa. E mentre lo faceva, travolto da una forma infantile di pura euforia, continuava a ripetere: « Niente!… Niente!… Niente! »
Smise di toccarsi, si rilassò, allargò le braccia disteso sul letto e, guardando il soffitto, scoppiò in una fragorosa risata: « Ognuno è il miglior medico di se stesso! » disse e continuò a ridere fragorosamente.
Il suo era un riso gioioso e innocente, ma anche ironico ed amaro. Gli vennero in mente la medicina ufficiale, persa nella sua “monomania meccanicistica”, gli vennero in mente i miracoli cristiani, i guaritori, il “Dio fanciullo” di Nietzsche che gioca a dadi col mondo. Si sentì lui stesso Dio, sentì di aver trovato in qualche modo quello che aveva sempre cercato: la chiave che svelava il mistero della vita e della morte.
Per la prima volta, timidamente, cominciò a pensare di portare fino in fondo la sua sfida all’odiata “medicina occidentale”, di infliggere una pesante “lezione” ad un suo illustre esponente: tornare dal professor Prini, farsi visitare di nuovo e gustarsi la faccia esterrefatta che avrebbe fatto nel constatare la sua perfetta e inspiegabile guarigione.
Avrebbe ammesso un tale scacco della sua scienza?… O avrebbe fatto di tutto per rintracciare, con interminabili analisi chimiche e radiografiche, qualche piccola traccia della malattia? Avrebbe ammesso che la sua diagnosi così precisa, così definita, era soltanto un’ipotesi buttata lì per abitudine professionale?… O sarebbe andato a cercare qualche rimasuglio infinitesimale del tumore, per poterlo di nuovo diagnosticare ?

continua…

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